L’unica paura

Quando ero piccolo ogni tanto, a letto, pensavo a cosa vuol dire morire. Quello che mi sorprendeva è che alla luce del giorno il pensiero era molto meno spaventevole che nel buio della mia cameretta.  Perché mai?

Ogni tanto la paura diventava qualcosa di più, diventava attacco di panico con una parola molto precisa ma che non rende del tutto la situazione. Terrore. E allora col fiatone andavo a rifugiarmi nel letto dei miei genitori. E mi tranquillizzavo. E non ci pensavo più. Come può essere una soluzione il non pensarci più?

Due giorni fa ero disteso a letto. Stavo ascoltando Early Water di Hoenig-Göttsching, come spesso faccio quando voglio entrare nel profondo al di là del flusso dei miei pensieri. E ho ripensato a cosa vuol dire morire. Per diversi minuti non ho sentito paura, nonostante fossi al buio. Sono ormai diversi anni che non ho più paura. Poi però è scattato qualcosa, forse il pensiero si è fatto più viscerale e ha conquistato il mio corpo. Il respiro si è fatto profondo e sono stato assalito dallo stesso terrore di un tempo.

Ma questa volta non mi sono alzato. Sono rimasto lì. Ho voluto mangiarlo, assaporarlo. Non aveva più senso rimandare il confronto. E ho capito una cosa: l’anima non ha paura della morte. Al di là delle cose care che in questo mondo si lascerebbero, le quali probabilmente a lei non sono poi così care, è veramente buffo avere paura di una morte puramente corporale. Ciò che sola può spaventare è la seconda morte: l’annullamento totale. L’anima è solo potenzialmente immortale, e dato che lei è la cosa più importante che abbiamo, il suo ricongiungimento con l’Arché dovrebbe essere la priorità di questa vita, o meglio, di queste molte vite. Il timore ci ricorda che siamo qui per questo.

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Chi vince non sarà colpito dalla morte seconda.
(Apocalisse di Giovanni 2:11)

Listone dischi 2011

Come ogni degno listone di fine anno, roundup dei 17 dischi del 2011 ascoltati dal titolare nel 2011:

Ryan Adams – Ashes & Fire: il classico disco di Ryan Adams, sanza infamia e sanza lodo, abbastanza omogeneo dall’inizio alla fine da far risultare la divisione in canzoni persino artificiale. Ritmo mai veloce, melodie sfumate leggermente elettroniche che ricordano il Dylan dei primi anni ’70, è una musica dall’umore sempre cangiante, ideale sottofondo a una pigra domenica pomeriggio passata in un qualche angolo di melanconia. Come se Ryan stesse a mirare l’apocalisse (ashes and fire) dalla sua finestra, ma con grande rilassatezza. Da ascoltare il title track. Voto: 6.

Brunori Sas – Poveri Cristi Vol. 2: Si vede che il Brunori ha il talento genuino di una certa stirpe di cantautori italiani. Però i testi sono di una lamentosità petulante unica. Capisco che c’è crisi e che qualcuno in musica pensi di dover riflettere la cosa, ma l’impressione ascoltare l’album è di stare a sentire i pensionati in autobus che si lamentano del governo e parlano degli esiti delle analisi del sangue. La musica dovrebbe elevare, non mandarti più giù nel fango. Voto: 4,5.

Antonello Venditti – Unica: Il grande Antonio (è questo il suo vero nome), quattro anni dopo il bellissimo Dalla pelle al cuore abbandona il gorgheggiato e i virtuosismi vocali per una cantata un po’ più pulita – e un disco mediocre, a tratti persino inascoltabile. Un capolavoro però il title track. Voto: 5.

Bill Callahan – Apocalypse: Un classico da america profonda ritorna alla luce. Chitarra acustica addirittura a corde di nylon per il brano di apertura (Drover), microfono, e poco altro. Canzoni tenute in piedi dalla voce profonda di Bill, che, solitamente focalizzato sull’interiorità, si ritrova a cantare dei miti che costituiscono l’America. Registrato dove se non altro che in Texas? Dove, a dire il vero, andrebbe anche ascoltato. Voto: 6.

Bright Eyes – The People’s Key: I grandi Bright Eyes sono tornati, con una coinvolgente atmosfera da rock classico. La spiritualità percorre tutto il disco, dove l’inizio e la fine sono caratterizzati da un soffice parlato di ispirazione Zacharia Stichin ben accompagnato melodicamente. E’ forse questo il loro disco più leggero, ma non per questo meno degno. Voto: 7.

Coldplay – Mylo Xyloto: Ero già preparato a mesi di dipendenza da Coldplay, quando ho scoperto che non sarebbe stato così. Mylo Xyloto, un nome che porta con sé qualcosa di giapponese (ironicamente una delle canzoni si chiama Princess of China), ad esempio il profumo di un certo fiore, non è il classico album che esce in questo periodo dell’anno e ti tiene attaccato alle cuffiette tutto l’autunno. E’ pur vero che questi sono però i migliori Coldplay: abbandonano quell’atmosfera melanconica che li aveva caratterizzati fin’ora per andare verso un posto che sembra più casa loro. Mylo Xyloto è, tutto sommato, un disco di felicità ingenua, da teenager innamorato. Voto: 6,5.

Davide Van De Sfross – Best of 1999-2011: Un best of non è un’uscita vera e propria, però val bene infrangere la regola per Davide Bernasconi in arte Van De Sfroos. Chiamarlo il Bob Dylan della Brianza non è esagerare. Ogni canzone è un racconto, ogni racconto è il gioco tra fantasia e realtà di un bambino adulto. Immaginarsi i personaggi del romanzo di Emilio Salgari che, pensionati, trascorrono l’estate a Rimini (in Yanez) è geniale. La sua voce è ammaliante esattamente come quella di Sua Bobbità, il dialetto di Como ha una musicalità incredibilmente superiore all’italiano. Voto: 8,5.

Fleet Foxes – Helplessness Blues: giù il cappello per questi Seattle boys che creano qualcosa di troppo unico, troppo esoterico, troppo strano per trovarci una qualsiasi definizione univoca. Ho letto folk-pop barocco, e credo che sia una buona parola, ma che ancora non dice tutto. Usano una strumentazione oscura non penso solo al mio orecchio ignorante, e vogliono correre il rischio di suonare troppo intelligenti per essere simpatici, di passare per dei primi della classe che si compiacciono di esserlo. La musica è rigogliosa, viva come un quadro di un paesaggio di campagna dove splende il sole. Ci sono riferimenti biblici e a Yeats. Lo scettro degli ultra cool dell’anno va sicuramente a loro. Voto: 6,5.

Joseph Arthur – The Graduation Ceremony: Joseph certamente soffre per una delusione d’amore, tuttavia questo non è un disco così triste come potrebbe sembrare. È tutto reso più elegante, calmo, meno doloroso dai suoi amici, che sono le frequenti apparizioni di strumenti a corda, pianoforti, sintetizzatori e voci femminili. Il risultato è un disco di formidabile confezione, impregnato di autentica atmosfera di Midwest, dove “Non c’è niente da fare se non sognare”. Voto: 7.

Kurt Vile – Smoke Ring for My Halo: Il peso è grande su di te se ti chiami Kurt e porti i capelli lunghi. Soprattutto poi se ti ascolto io. Kurt Vile non ne esce vincitore, ma neanche con le ossa rotte. La sua chitarra fa un eccellente lavoro, si fonde così amabilmente con la voce che sembrano entrambe provenire dalle viscere di Kurt. In un’epoca dove l’angoscia è trasmessa con gli effetti speciali di uno spettacolo di raggi laser, è bello sentire il suo buon vecchio pessimismo da “andiamo a berci una birra da Boe”. Voto: 6.

Lady Gaga – Born This Way: Atteso, attesissimo soprattutto dal sottoscritto è un disco che non delude e se lo fa non è per colpa sua. I singoli che cominciano a girare mesi prima dell’uscita rovinano abbastanza l’uscita, compreso il fatto che il più gettonato, Born This Way, è inspiegabilmente una delle canzoni più brutte dell’album (presente anche nel bonus disc in un remix criminale). E’ comunque la solita grande, grandissima Lady Gaga che, come nell’uscita precedente, alterna capolavori venuti da un altro mondo a canzoni così brutte che avrebbe dovuto fare a meno di includere e gettare nel mucchio dei progetti andati male. Un album non deve avere per forza venti canzoni. Voto: 7,5.

Vitamin String Quartet Performs Lady Gaga’s Born This Way: Non si può citare Lady Gaga senza parlare delle cover versione quartetto d’archi di questro straordinario gruppo della West Coast. Delude un po’ che le canzoni siano solamente sette e ne manchino diverse che sarebbero risultate magnificamente (come Americano, Highway Unicorn). Però sono sempre dei fottuti idoli. Voto: 7,5.

My Morning Jacket – Circuital: Accolto incredibilmente dalla critica, un po’ più freddamente da me. Non si può certo dire che ai My Morning Jacket (un nome meno orribile no?) manchi la creatività: ogni traccia ha sonorità diverse dalla precedente, non ce ne sono due di uguali. In Holdin’ On the Black Metal combinano un’atmosfera funky con un coro di bambini, tanto per dirne una. Voto: 6.

R.E.M. – Collapse Into Now: Il 2011 di questa band che, nata negli anni ’80, assurta all’Olimpo nei ’90, data per finita nei 2000 e ora risorta slanciandosi nei ’10, è un ritorno alla sonorità di Automatic for the People e Out of Time (1991). Come se i R.E.M. avessero voluto attingere al proprio stesso passato per trovare nuove ispirazioni. È un album acustico, pastorale, bucolico. E la voce di Michael Stipe è sempre la stessa, da togliere il fiato. Voto: 6,5.

Roddy Woomble – The Impossible Song & Other Songs: Quando l’ho ascoltato quasi mi è venuto da piangere. Io che avevo sempre sostenuto che Roddy Woomble fosse il più grande cantautore/frontman che la terra di Scozia avesse mai visto e udito. Eppure nello scivolamento in tonalità ancora più medievali (complice il trasloco nell’isola di Mull?) accompagnato dalla sua chitarra elettrica di fiducia sempre incredibilmente grunge, dopo il capolavoro My Secret Is My Silence Roddy non riesce proprio a ripetersi. È un disco che non si ascolta molto volentieri. Che l’era dei grandi Idlewild sia finita? Spero di no. Voto: 5.

The Decemberists – The King Is Dead: Sentivo veramente la mancanza di una buona espressione del rock cosiddetto indie (più o meno dall’ultimo dei Baustelle). Che non ho mai capito veramente cosa voglia dire, ma inevitabilmente quando ascolti qualcosa di indie lo cogli subito. Hanno un retrogusto più che sospetto di R.E.M. (sempre lì: Automatic for the People), ma anche qualcosa degli ultimi Led Zeppelin. Voto: 6,5.

Non Nobis Domine – Ritorno in Istria: Qualcosa di bello mi lega a questo gruppo che dire di provincia è un eufemismo. Ritorno in Istria è una raccolta delle migliori canzoni del gruppo, più un paio di inediti. Le canzoni sono di una genuinità rara e parlano di tempi andati, di un’Italia che non c’è più e che fa commozione ricordare. Le melodie sono coinvolgenti e il cantante potresti benissimo essere tu. Voto: 7.

Solite infatuazioni

Ho scoperto i National. E’ stato amore a prima vista. Non sono più abituato a trovare le parole per descrivere una musica, ma ci proverò. E’ la musica ideale per questo autunno. E’ la musica che dà quella che gli altri chiamano depressione, e io concentrazione. E non mi è stato mai chiaro se è un problema di lessico o se semplicemente l’effetto su di me è differente. Accompagna benissimo le serate di studio, di pensiero o di progettazione intensa. Ti culla mentre ti addormenti nella pendolarità. E’ tutto quello che posso chiedere.

Cattiaux e la Chiesa cattolica

Da un sacco di tempo aspettavo queste parole. Non ero mai riuscito a formularne di così perfette, e fino ad oggi perseveravo invano nella mia quest. Louis Cattiaux, un francese vissuto nella prima metà del secolo scorso, artista ed esperto alchimista, le ha scritte.

La Chiesa cattolica detiene un tesoro di cui ha perso la chiave, gli altri vogliono mettere tutto in comune ma senza tesoro e senza chiave. Mi capite? Tutti gli ignoranti si riconoscono al fatto che riconducono tutto al moralismo credendo di trovare così la salvezza, ed i protestanti hanno cominciato in nome della ragione, la ragione umana che vede con la perspicacia di una talpa. La vecchia Chiesa di Cristo, malgrado tutto, ha un altro portamento e si ricorda di un segreto di vita che gli altri sembrano certamente ignorare oppure aver
totalmente dimenticato. […]

C’é una sete di sopravvivenza nell’uomo, sete legittima e naturale che contentano solo le religioni cattolica ed islamica, ma adesso, tutto sembra talmente stanco, spento e dimenticato, e ci sono tanti desideri di perfezione nell’umanità che gente ben intenzionata, ma male istruita, può adesso fare illusione e raggruppare buone volontà disponibili su un programma morale al quale sfugge totalmente il mistero iniziatico. La Chiesa cattolica difende vigorosamente il suo tesoro ed ha certamente ragione; purtroppo, non può più penetrarvi adesso e si è ridotta ad attendere e sperare la fine dei tempi per vederlo realizzare concretamente. Ciò che appare noioso è questo spirito di proselitismo ad oltranza, ma come fare altrimenti quando la gente è così addormentata? In ogni caso, non mi vedo a capo di un palazzo per miliardari alla ricerca di conversioni e di confessione pubblica. C’é lì come una negazione e come un annientamento che assomiglia furiosamente alla vita spirituale del bestiame, allorché l’approccio solitario di Dio è tutt’altra cosa. […]

Lei mi parla anche molto del sangue di Gesù Cristo versato per salvarci, ma temo che lei ne parli come gli altri cristiani, cioé profanamente senza sapere di cosa si tratta in realtà. E’ abbastanza fastidioso ascoltarli predicare ciò che non conoscono e non è possibile far superare le apparenze a quelli che non credono che in queste ultime. Il settarismo dell’idolatria, è prendere le apparenze particolari della rivelazione divina per la realtà trascendente del mistero universale di vita

Musica per quest’estate

Il disco dell’estate è sicuramente Yanez di Davide Van de Sfroos. Già presente a Sanremo con l’omonima canzone di punta, non ha vinto e non è arrivato nemmeno in finale: una prova schiacciante della sua bellezza. La sua voce potrebbe essere quella di un Michael Stipe lumbàrd, mentre l’inaspettatamente, incredibilmente musicale dialetto di Como rende l’illusione che le canzoni siano confinate in uno spazio mitico, senza tempo esattamente come il romanzo di Emilio Salgari. Non avrei bisogno di altra musica, mentre me ne sto disteso sulla sabbia.
Il disco che invece non si riesce a togliere dal lettore cd (di casa) è The Graduation Ceremony di Joseph Arthur, il ragazzotto dell’Ohio con questo nome decisamente biblico. Nato da una delusione d’amore, è un disco colto, suonato a fuoco lento, perfetto da ascoltare mentre si contempla l’Enrosadira, il tramonto roseo sulle Dolomiti, perché “there’s nothing to do in the Midwest but dream” – dice Joseph.
In viaggio verso il mare, non lascerei a casa Circle, l’ultimo album degli Scala & Kolacny Brothers, il coro di ragazzine belga, che è arrivato alle luci della ribalta per una versione spiritata di Creep, il manifesto dell’alienazione e dell’inadeguatezza sociale di quel genio di Thom Yorke, usato per il trailer del film Social Network. A parte chiedersi perché il coro si chiama brothers quando è composto da voci femminili, l’album è composto da due dischi: il primo è tristissimo e meraviglioso, sullo stesso registro di Creep. Sono cover degli Oasis, dei Metallica, dei Depeche Mode, di Lithium dei Nirvana, di Viva la Vida dei Coldplay. In mezzo, in una singolare cacofonia, c’è l’incredibilmente allegra cover di Solsbury Hill di Peter Gabriel. Il secondo sono canzoni autoprodotte dai Bros, e lo potete buttare direttamente nell’inceneritore, tanto crassa è la loro incapacità di scrivere canzoni.
Menzione speciale per Roddy Woomble, già autore del disco dell’estate 2006, il bellissimo My Secret Is My Silence, che quest’estate esce conThe Impossible Song & Other Songs. Il frontman degli Idlewild, probabilmente la migliore band che Scozia abbia mai avuto dopo i mitici Vaseline, rende stavolta un po’ più elettrici suoni che comunque sanno dell’erba delle Highlands (quando ha appena piovuto) e della lana delle pecore delle Falkland. Mielosamente bucolico.
Astenersi da Lady Gaga, che ha fatto un disco perfetto per l’autunno ma fuori come un balcone per l’estate. Per chi negli ultimi sei mesi è vissuto, come dicono in America, sotto una roccia, va benissimo anche ripescare il capolavoro, il formidabile The Suburbs degli Arcade Fire, datato lo scorso settembre.

La tua bellezza illumina il tramonto
e splende nell'aurora
è un incendio nella notte
che mi brucia e mi divora
la tua bellezza è faro
in notti di tempesta
e anche se non vive il cuore
mi va bene quel che resta
la tua bellezza è stella
che brilla sopra i mari
che mi guida fra le ombre
dei miei ricordi amari
la tua bellezza è cura
di ogni cicatrice
è una dea che oggi mi appare
ma il futuro non predice

Non Nobis Domine – Elegia

Prima è arrivato Camillo, che raramente sbaglia sulla musica. Le canzoni di questo disco hanno cominciato ad assillare le mie orecchie, senza che ne fossi consapevole. Consapevole che il titolo del disco e della sua canzone rappresentativa sono quello di un'opera di Elemire Zolla. Tre indizi fanno una prova, si dice.

Ci salveremo disprezzando la realtà

"Ti devo fare ascoltare qualcosa; diventerà la canzone della tua vita". Basta poco per capire che mi sarò innamorato di questi quattro ragazzi. Ancora prima di ascoltare una sola canzone, basta la pagina di Wikipedia: "The band formed in late 2007, rising out of London's folk scene". Con London's folk scene mi sono già fregato. Questi qui sanno di Inghilterra che non c'è più. Dell'aria dei pub dei sobborghi londinesi.