Come ogni degno listone di fine anno, roundup dei 17 dischi del 2011 ascoltati dal titolare nel 2011:
Ryan Adams – Ashes & Fire: il classico disco di Ryan Adams, sanza infamia e sanza lodo, abbastanza omogeneo dall’inizio alla fine da far risultare la divisione in canzoni persino artificiale. Ritmo mai veloce, melodie sfumate leggermente elettroniche che ricordano il Dylan dei primi anni ’70, è una musica dall’umore sempre cangiante, ideale sottofondo a una pigra domenica pomeriggio passata in un qualche angolo di melanconia. Come se Ryan stesse a mirare l’apocalisse (ashes and fire) dalla sua finestra, ma con grande rilassatezza. Da ascoltare il title track. Voto: 6.
Brunori Sas – Poveri Cristi Vol. 2: Si vede che il Brunori ha il talento genuino di una certa stirpe di cantautori italiani. Però i testi sono di una lamentosità petulante unica. Capisco che c’è crisi e che qualcuno in musica pensi di dover riflettere la cosa, ma l’impressione ascoltare l’album è di stare a sentire i pensionati in autobus che si lamentano del governo e parlano degli esiti delle analisi del sangue. La musica dovrebbe elevare, non mandarti più giù nel fango. Voto: 4,5.
Antonello Venditti – Unica: Il grande Antonio (è questo il suo vero nome), quattro anni dopo il bellissimo Dalla pelle al cuore abbandona il gorgheggiato e i virtuosismi vocali per una cantata un po’ più pulita – e un disco mediocre, a tratti persino inascoltabile. Un capolavoro però il title track. Voto: 5.
Bill Callahan – Apocalypse: Un classico da america profonda ritorna alla luce. Chitarra acustica addirittura a corde di nylon per il brano di apertura (Drover), microfono, e poco altro. Canzoni tenute in piedi dalla voce profonda di Bill, che, solitamente focalizzato sull’interiorità, si ritrova a cantare dei miti che costituiscono l’America. Registrato dove se non altro che in Texas? Dove, a dire il vero, andrebbe anche ascoltato. Voto: 6.
Bright Eyes – The People’s Key: I grandi Bright Eyes sono tornati, con una coinvolgente atmosfera da rock classico. La spiritualità percorre tutto il disco, dove l’inizio e la fine sono caratterizzati da un soffice parlato di ispirazione Zacharia Stichin ben accompagnato melodicamente. E’ forse questo il loro disco più leggero, ma non per questo meno degno. Voto: 7.
Coldplay – Mylo Xyloto: Ero già preparato a mesi di dipendenza da Coldplay, quando ho scoperto che non sarebbe stato così. Mylo Xyloto, un nome che porta con sé qualcosa di giapponese (ironicamente una delle canzoni si chiama Princess of China), ad esempio il profumo di un certo fiore, non è il classico album che esce in questo periodo dell’anno e ti tiene attaccato alle cuffiette tutto l’autunno. E’ pur vero che questi sono però i migliori Coldplay: abbandonano quell’atmosfera melanconica che li aveva caratterizzati fin’ora per andare verso un posto che sembra più casa loro. Mylo Xyloto è, tutto sommato, un disco di felicità ingenua, da teenager innamorato. Voto: 6,5.
Davide Van De Sfross – Best of 1999-2011: Un best of non è un’uscita vera e propria, però val bene infrangere la regola per Davide Bernasconi in arte Van De Sfroos. Chiamarlo il Bob Dylan della Brianza non è esagerare. Ogni canzone è un racconto, ogni racconto è il gioco tra fantasia e realtà di un bambino adulto. Immaginarsi i personaggi del romanzo di Emilio Salgari che, pensionati, trascorrono l’estate a Rimini (in Yanez) è geniale. La sua voce è ammaliante esattamente come quella di Sua Bobbità, il dialetto di Como ha una musicalità incredibilmente superiore all’italiano. Voto: 8,5.
Fleet Foxes – Helplessness Blues: giù il cappello per questi Seattle boys che creano qualcosa di troppo unico, troppo esoterico, troppo strano per trovarci una qualsiasi definizione univoca. Ho letto folk-pop barocco, e credo che sia una buona parola, ma che ancora non dice tutto. Usano una strumentazione oscura non penso solo al mio orecchio ignorante, e vogliono correre il rischio di suonare troppo intelligenti per essere simpatici, di passare per dei primi della classe che si compiacciono di esserlo. La musica è rigogliosa, viva come un quadro di un paesaggio di campagna dove splende il sole. Ci sono riferimenti biblici e a Yeats. Lo scettro degli ultra cool dell’anno va sicuramente a loro. Voto: 6,5.
Joseph Arthur – The Graduation Ceremony: Joseph certamente soffre per una delusione d’amore, tuttavia questo non è un disco così triste come potrebbe sembrare. È tutto reso più elegante, calmo, meno doloroso dai suoi amici, che sono le frequenti apparizioni di strumenti a corda, pianoforti, sintetizzatori e voci femminili. Il risultato è un disco di formidabile confezione, impregnato di autentica atmosfera di Midwest, dove “Non c’è niente da fare se non sognare”. Voto: 7.
Kurt Vile – Smoke Ring for My Halo: Il peso è grande su di te se ti chiami Kurt e porti i capelli lunghi. Soprattutto poi se ti ascolto io. Kurt Vile non ne esce vincitore, ma neanche con le ossa rotte. La sua chitarra fa un eccellente lavoro, si fonde così amabilmente con la voce che sembrano entrambe provenire dalle viscere di Kurt. In un’epoca dove l’angoscia è trasmessa con gli effetti speciali di uno spettacolo di raggi laser, è bello sentire il suo buon vecchio pessimismo da “andiamo a berci una birra da Boe”. Voto: 6.
Lady Gaga – Born This Way: Atteso, attesissimo soprattutto dal sottoscritto è un disco che non delude e se lo fa non è per colpa sua. I singoli che cominciano a girare mesi prima dell’uscita rovinano abbastanza l’uscita, compreso il fatto che il più gettonato, Born This Way, è inspiegabilmente una delle canzoni più brutte dell’album (presente anche nel bonus disc in un remix criminale). E’ comunque la solita grande, grandissima Lady Gaga che, come nell’uscita precedente, alterna capolavori venuti da un altro mondo a canzoni così brutte che avrebbe dovuto fare a meno di includere e gettare nel mucchio dei progetti andati male. Un album non deve avere per forza venti canzoni. Voto: 7,5.
Vitamin String Quartet Performs Lady Gaga’s Born This Way: Non si può citare Lady Gaga senza parlare delle cover versione quartetto d’archi di questro straordinario gruppo della West Coast. Delude un po’ che le canzoni siano solamente sette e ne manchino diverse che sarebbero risultate magnificamente (come Americano, Highway Unicorn). Però sono sempre dei fottuti idoli. Voto: 7,5.
My Morning Jacket – Circuital: Accolto incredibilmente dalla critica, un po’ più freddamente da me. Non si può certo dire che ai My Morning Jacket (un nome meno orribile no?) manchi la creatività: ogni traccia ha sonorità diverse dalla precedente, non ce ne sono due di uguali. In Holdin’ On the Black Metal combinano un’atmosfera funky con un coro di bambini, tanto per dirne una. Voto: 6.
R.E.M. – Collapse Into Now: Il 2011 di questa band che, nata negli anni ’80, assurta all’Olimpo nei ’90, data per finita nei 2000 e ora risorta slanciandosi nei ’10, è un ritorno alla sonorità di Automatic for the People e Out of Time (1991). Come se i R.E.M. avessero voluto attingere al proprio stesso passato per trovare nuove ispirazioni. È un album acustico, pastorale, bucolico. E la voce di Michael Stipe è sempre la stessa, da togliere il fiato. Voto: 6,5.
Roddy Woomble – The Impossible Song & Other Songs: Quando l’ho ascoltato quasi mi è venuto da piangere. Io che avevo sempre sostenuto che Roddy Woomble fosse il più grande cantautore/frontman che la terra di Scozia avesse mai visto e udito. Eppure nello scivolamento in tonalità ancora più medievali (complice il trasloco nell’isola di Mull?) accompagnato dalla sua chitarra elettrica di fiducia sempre incredibilmente grunge, dopo il capolavoro My Secret Is My Silence Roddy non riesce proprio a ripetersi. È un disco che non si ascolta molto volentieri. Che l’era dei grandi Idlewild sia finita? Spero di no. Voto: 5.
The Decemberists – The King Is Dead: Sentivo veramente la mancanza di una buona espressione del rock cosiddetto indie (più o meno dall’ultimo dei Baustelle). Che non ho mai capito veramente cosa voglia dire, ma inevitabilmente quando ascolti qualcosa di indie lo cogli subito. Hanno un retrogusto più che sospetto di R.E.M. (sempre lì: Automatic for the People), ma anche qualcosa degli ultimi Led Zeppelin. Voto: 6,5.
Non Nobis Domine – Ritorno in Istria: Qualcosa di bello mi lega a questo gruppo che dire di provincia è un eufemismo. Ritorno in Istria è una raccolta delle migliori canzoni del gruppo, più un paio di inediti. Le canzoni sono di una genuinità rara e parlano di tempi andati, di un’Italia che non c’è più e che fa commozione ricordare. Le melodie sono coinvolgenti e il cantante potresti benissimo essere tu. Voto: 7.
Onori al nuovo blog e ai fulmini