Remember remember the twenty-first of November

The end is where we start from. TS Eliot lo diceva nell’ultimo dei suoi quartetti e io l’ho sempre trovato vero. Per questo oggi sono tornato dove è cominciato tutto. O perlomeno, molto.

Volevo arrivare alla Basilica della Salute in tempo per la compieta, l’ultima preghiera della sera.  Volevo arrivare e ce l’ho fatta, nonostante l’aubotus dell’Actv in ritardo del 100% (15 minuti su 15 di tragitto dal capolinea, a strade sgombre s’intende), nonostante abbia sbagliato più volte strada a Venezia, intestardendomi a volerne fare una più lunga in modo da giungere alla basilica nel modo migliore, attraverso il ponte votivo galleggiante.

Sono arrivato ed era sempre là, la mia chiesa preferita, la basilica del Longhena col le sue volute che la parallasse gradatamente disvela dal contorno dei palazzi sul Canal Grande. Dentro una cinquantina di persona, il ché mi ha confermato come fosse quello sicuramente il momento più adatto per rendere omaggio alla più bella festa veneziana, lontano dalle masse che ne avevano calpestato i pavimenti per tutta la giornata.

Dicevo, sono tornato da dove avevo cominciato perché il 20 novembre 2003 ero lì, ad ascoltare le parole del card. Scola rimbalzare sui marmi e all’interno della volta. E ne rimasi colpito. E sono tornato così per diversi anni a seguire, ad ascoltare sempre quelle parole e a lasciarmi colpire ancora, a scorgere ancora la basilica fare capolino sulle acque del Canale. E mi ricordo di esserne tanto rimasto colpito da averne, tempo dopo, comprato dei libricini con la loro trascrizione. Rileggendole, al caldo della mia cameretta, non mi davano più però la stessa incredibile sensazione. Erano un’altra cosa, pronunciate lì e in quell’ora dalla bocca del cardinale.

Mi avevano colpito soprattutto perché finalmente sentivo qualcuno che tentava di porsi gli interrogativi che anche un ragazzino di 16 anni si pone; dandone anche qualche risposta, seppure molto da sgrossare. Le risposte sono importanti certo, ma lo è più porre le domande giuste. Uno a quell’età, che sia credente (che brutta, bruttissima parola che oggi mi suona questa) o meno, si domanda che senso abbia l’esistenza della Chiesa e dei suoi riti, se è esistito Gesù o se sono tutte balle, perché bisogna metter su famiglia e non scopare ad libitum, come mai nel mondo ci sia tanta sofferenza se Dio esiste. Le domande sono poche e precise, e le risposte dovrebbero essere tali. Ma non è così. Le risposte sono evanescenti e senza dubbio prive di quel requisito di evidenza di cui parlava Cartesio. Per cui chi non crede è molto contento perché sente di aver ragione a non credere, e chi ha veramente fede sarà martellato da una dissonanza cognitiva da emicrania, con la confortante soluzione di reprimere tutto e vivere in una sorta di ipocrisia. Il card. Scola era una piacevole eccezione in questa cacofonia; col suo Du Stil e l’insistere sulla bellezza e sul valore quasi eroico della fede e della sua pratica. Un passaggio illuminante, del 2005:

“Quanti dei vostri compagni di scuola, di lavoro, di università ironizzerebbero sulla vostra scelta? “Fare un pellegrinaggio alla Salute… Ma voi siete fuori dal mondo! La vita è un’altra cosa!”. La concretezza della vita sembra indicare tutta un’altra direzione, un altro modo di affrontare la scuola, il riposo, il tempo libero: il modo del “mordi e fuggi”, delle storie occasionali, del provare per provare, o la va o la spacca… che cosa importa il futuro! “Un’altra strada? Sei un illuso!”. Ma c’è anche un’obiezione ancora più infida che parte da noi: “Va bene, anche quest’anno andiamo alla Salute, perché no? Una bella parentesi spirituale una volta all’anno non guasta… L’ho fatto anche l’anno scorso, anche due anni fa, anche tre anni fa. So bene che la vita è un’altra cosa, lo vedo anche nei miei genitori che hanno i loro bei problemi… Andiamo, ma so già cosa diranno il Patriarca e gli altri sacerdoti. Lo so già: ripeteranno le solite cose che conosciamo a memoria (ma chi ci crede più!?): che l’amore è per sempre, che bisogna essere fedeli per tutta la vita, che bisogna essere aperti alla vita, che bisogna lavorare… Le conosciamo queste cose! Ma la vita è un’altra cosa!”.”

Ci vuole tanto? Avrei moltissimo da revisionare oggigiorno, ma penso che siano parole tra le più adatte da pronunciare a dei ragazzi in una basilica.
Così, mentre stasera nel mezzo della compieta fissavo la pala d’altare della Vergine con in braccio il bambino, ripensavo a tutto questo, alla mia storia e a dove sono arrivato e a chi sono, oggi. Tutto è stato sufficiente e necessario e non ho nulla da rinnegare. Sento di essere stato particolarmente fortunato. Ho avuto un sacco di domande che hanno trovato risposta, e sempre una risposta commisurata al mio grado di comprensione possibile. Quando finalmente avevo ottenuto delle risposte soddisfacenti, ho avuto modo di trovare nuove domande che mettessero in discussione di nuovo tutto. E così più volte. E mentre fisso gli occhi della Vergine penso che non ce la faccio proprio a odiare tutto questo, e che tutto ancora mi affascina. La chisa di marmo, la compostezza delle preghiere, la devozione dei seminaristi e di qualche altro ragazzo della mia età presente. Non ce la faccio a odiare anche se so che è tutto contaminato, so che lo schema è fatto apposta per tarpare le ali e preservare l’ignoranza. Tuttavia, è attraverso la Chiesa che sono giunto dove sono e che molti altri ci giungeranno, perché Lui semina dappertutto.

“Ama i tuoi nemici”, ha detto Rabbì.

Esco. C’è un gruppo di rumorosi turisti dell’est in cerchio attorno a un pozzo che usano lo stesso pozzo come piano per prepararsi dei drink. Vado fino a Punta della Dogana. Due volte sono passato per queste mattonelle con 40 km sulla gambe, e mentre ci penso cerco di tracciare con l’immaginazione il ponte che in quelle occasioni sovrasta il Canale e si infila tra gli imbarcadero di San Zaccaria. Torno indietro.

Torno sul ponte votivo e fisso ancora una volta la basilica del Longhena. La guardo a fondo. Dall’alto in basso, da più prospettive. Osservo un vaporetto attraccare. Un pensiero mi passa per la testa. E se fosse questa l’ultima volta in cui la vedrò? Se questo fosse l’ultimo 21 novembre? So di averlo già pensato, un paio di anni fa, ma ciò non toglie… Stranamente, o forse no, una sensazione di pace si impossessa di me. Amen. Così sia. O meglio, è la nostra speranza. Decido allora di fermarmi a guardarla ancora qualche minuto più a lungo, mentre un uomo che carponi sul ponte sta dipingendo a olio la prospettiva. Lui ha capito veramente molto. Voltandomi, me ne vado. Salve Regina…

Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio,
tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ‘l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventro tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l’etterna pace
così è germinato questo fiore.
Qui se’ a noi meridiana face
di caritate, e giuso, intra ‘ mortali,
se’ di speranza fontana vivace.

Paradiso XXXIII

A volte la tua normalità è scossa alle fondamenta. Non da un evento catastrofico, ma da un dettaglio quale una frase che sa come colpirti nel posto giusto. Ero ancora un ingenuo Warrior nel mondo di Warcraft, in un momento di grande coinvolgimento nel gioco, quanto di immensa sterilità nella mia vita. Un personaggio, facente parte di una carovana, ti sottopone una serie di domande per leggere la fortuna, e quindi,  come nella miglior tradizione orientale, ti affida un rotolino con scritta la sentenza per te: "Your first love and last love is self-love".
Non posso dire di averla mai capita del tutto, ma quel rotolino lo conservo ancora, e quella frase è scolpita da qualche parte nel mio cuore.

Turiste straniere – parte due

Nonostante sia fine Aprile il caldo è arrivato. Le maniche della mia camicia sono già arrotolate. E’ uscito un album dei Baustelle che terrà caldo il mio iPod per tutta l’estate, immagino. Io sto male. La sinusite mi ha colpito e mi sto ancora riprendendo.
Ma un bel pomeriggio arriva un messeggio su Facebook, e con grande stupore non si tratta di seccatori: quelle due ragazze americane che in quella fredda sera di Febbraio avevamo incontrato sono di nuovo a Venezia, e ci chiedono di incontrarle. Mi strofino un po’ gli occhi. Poi prendo in mano il telefono: il primo da avvisare è il Mose. Il quale chiaramente non dà segni di vita dall’altra parte del filo ideale. Poco male, perché allora si passa alla via più rapida ed economica: aprire World of Warcraft. E’ il bello di avere una sottoscrizione ancora attiva, pur avendo smesso.
Ad ogni modo, nel giro di un’ora ci mettiamo d’accordo sul da farsi: proporremo di mangiare insieme una pizza la sera dopo. Solo Maci tira pacco, affermando di dover lavorare. Ma so per certo che in realtà teme la reazione della sua dolce metà.
Molte questioni ora si accodano all’ingresso della mia mente. E il mal di testa non rende nulla di facile soluzione. Che atteggiamento usare? Il manuale Mystery in pdf è sempre sul mio desktop, aspettando di essere studiato, ma la pigrizia ha contagiato anche questo campo. E’ lì da due mesi, e ne avrò letto metà. Una volta, quando ero un tipo serio, l’avrei finito in una settimana. Quando ero un tipo serio avevo anche lo spray ai feromoni. Mi sarei scritto la scaletta delle battute, preparato gli argomenti della conversazione. Ma non ho voglia, e la sinusite mi assolve.

L’appuntamento è alla otto al ponte di Rialto. Hanno un po’ di difficoltà ad arrivare, da brave signore alle prese con le mappe. Alyx è più carina, e abbronzata, di come me la ricordassi. La bruttona di Walla Walla è invece tale e quale era nella mia memoria. Il nome di Alyx (Alice-Lynx) mi è di gran fascino; sarà in effetti da annotare per il futuro. Mischia la figura della ragazzina predestinata ad essere l’agente della vendetta contro il male e la lince, schiva guardiana dei segreti della natura. Ritornando alla realtà, la nostra destinazione sono le Oche di Lista di Spagna. Facciamo la strada nuova, più animata, e nel tragitto offriamo loro uno spritz. All’Aperol, perchè sono ragazze. Eppure mi era sorto qualche dubbio, dato che non conoscevo le loro abitudini riguardo al bere, ma è vero non ci si può esimere da qualcosa che è tutt’uno con la mia terra. Se non bevi lo spritz, piuttosto butto via il bambino con l’acqua sporca e andiamo tutti a casa.
Entriamo nel locale. Forse sono più avanti di noi nel bere. Forse lo sono diventate dopo sei mesi in Italia. I miei compari ordinano birra. Io penso di seguirli. Alyx si sorprende che non beviamo vino. Accidenti, preferisci il vino alla birra? Questo è un bel carico di punti a tuo favore. Allora cerco di convincerla a prendere del vino insieme, però non ci capiamo e a lei sembra che cambi bevanda per cortesia. Così birra per tutti. In Italia non si vedono ragazze (senza baffi) che bevano birra. Non che sia meglio o peggio.
A me piace quella che gli inglesi chiamo Insight (si potrebbe tradurre con introspezione). Un test di Facebook  (fonte di verità!)  sulle intelligenze di Gadner che si professava “serissimo accuratissimo”, mi ha schiaffato nella categoria degli intrapersonali. D’altronde sono anche un grande appassionato di Poirot. E come diceva quel buon belga, non c’è niente di peggio per un uomo che ha qualcosa da nascondere della conversazione. Ognuno ha l’irresistibile tentazione di mostrarsi (figuriamoci poi se non ha niente da nascondere). Se non fosse questa proprio la prerogativa della lince: non dare via sè stessi. Ma per fortuna Alyx non è nomen-omen.
Così scopro molte cose interessanti: lei viene dal New Mexico, una contrada deserta, di cui molti americani non conoscono neanche l’esistenza. Odia il Texas (perchè è repubblicano fino all’osso, scommetto io senza possibilità di errore), ma le piace la California. Insieme vanno a un’università vicino a Seattle, solo che lei studia Biologia (ed è in Italia a fare cosa? Raccogliere margherite?), mentre Molly quello strano impasto umanistico che ancora non capisco. L’università da loro dev’essere facile. Di contro non concepiscono il fatto di copiare, o imbrogliare agli esami con altri modi. Non lo concepiscono proprio. Fanno una faccia strana quando il Kine racconta come ha pessato un esame due giorni prima grazie alle dispense inserite nell iPod. Ora però capisco anche il mio indimenticato professore di matematica, Nick Garofalo l’americano.
Nel frattempo Kine carbura. E quando arriva al punto giusto c’è solo da godersi lo spettacolo. Con un giro di parole e allusioni che per brevità non riporto, chiede se da loro funzioni come su American Pie. Le ragazze, imbarazzatissime, rosse, prima negano su tutta la linea; poi spiegano che in alcuni stati del sud è così, ma da loro no. Alyx, tu però sei di uno stato del sud, nevvero? Ma tengo la domanda per me. Il pezzo forte arriva quando Molly chiede se conosciamo John Wayne. Certo. E voi – chiede il Kine – conoscete Rocco Siffredi, che è anche lui un attore famoso? Loro si stanno quasi scusando della propria ignoranza, quando riveliamo che è un attore porno. Ma vogliamo confrontare John Wayne con un attore porno? Certo; anzi no, non c’è pagarone, perchè Rocco “has a bigger gun”.
Dopo questo la nostra serata potrebbe anche concludersi, la materia estinguersi e l’universo ridursi a un buco nero, perchè più in alto di così non si può arrivare.
Invece la storia continua, usciamo dalle oche e andiamo verso piazza San Marco. Qui posso sfoggiare il poco materiale preconfezionato che ho. Mischiare la storia di Venezia a quella dei palazzi che si affacciano sulla piazza e sul bacino, ricordi che ripesco dalla gite delle elementari, da tutte le volte che ho ascoltato il Milione di Paolini, da quelle poche pagine che in vita mia ho letto sulla mia città. Le storie del ponte dei sospiri e delle prigioni, le colonne di Todaro e del Leone che erano la porta della città, è tutto buono. Glorifico un po’ anche Nostra Signora indicando la basilica del Longhena e raccontando della peste e del voto che da secoli i veneziani il 21 novembre sciolgono. Gli occhi di Alyx brillano. “Do you have a lot of traditions and festivals?”. E’ una domanda da bambina (cresciuta); perchè la risposta è sì e tu l’hai già capito, solo che vuoi sentirtelo dire, e meravigliarti come se non lo sapessi. “That’s what I like!”. E ora che si è appagato il ventre, perchè vedi di fronte a te una donna andare in brodo di giuggiole, è il turno della testa. Quello che manca all’America è la storia. Ora capisci il mio poeta preferito, T.S. Eliot: “A people without history is not redeemed from time, for history is a pattern of timeless moments”. Ciò che ho mostrato ad Alyx proprio qui ai piedi della colonna di San Todaro, in questa mita sera di Aprile, è il “pattern of timeless moments”. Grazie a questo lei ha potuto astrarsi per un attimo dal tempo, e le sue pupille che luccicano ne sono il segno tangibile.

E mentre le luci calano anche su questa sera, ché non gli Alisei ci sospingono al porto di casa ma l’ignobile trasporto pubblico, penso che in altri tempi avrei citato meglio Eliot o altri poeti per chiudere questo sospeso racconto. Accomodato sui sedili di plastica della circolare notturna, ho sempre la stessa sensazione: una tigre (ma quest’oggi una lince) mi sta divorando. Penserò ancora ad Alyx la prossima volta che dalla fondamenta guarderò l’acqua del bacino di San Marco, guaderò l’impeccabile architettura della basilica della Salute. Ma mi accorgo che, pur avendo qualcosa di diverso, tutto è sempre uguale, non c’è nulla di nuovo sotto il sole. E allora la storia si conclude come era cominciata, davanti a un bicchiere di Whiskey e a un pugno di antiche sentenze ebraiche. Thoughts of a dry brain in a dry season.

Turiste straniere – parte uno

Se non fosse che si può fare qualcosa per cambiare il verso delle cose. Kine, la tua sfrontatezza ha qualcosa di divino. Come puoi ripetere ad alta voce “Milf milf… Do you like milfs?” a tutti i gruppi di turisti in cui ci imbattiamo? Si può, si deve. Così succede che un gruppo di ragazze risponde qualcosa e si mette a ridere.
A questo punto il tempo nella mia mente si ferma. Acumina i sensi, Spuz, e pensa rapidamente. I miei amici continuano a camminare, prendendo qualche metro. Io rimango immobile. Mi giro piano verso le turiste, due di loro stanno ancora ridendo e ripetono “giapponesi”. Giapouneisi. Ora o mai più. “What makes you laugh about giapponesi?”. Ben fatto, situational opener. I miei compari si accorgono presto che ho aperto il set, e vengono in mio aiuto. Ben presto siamo invischiati nella conversazione. Il Mose comincia subito a parlare di Nba e football (Did you watch the superbowl?). Io, complice l’oscurità, complice il vino, mi ritrovo appiccicata la più brutta del gruppo. Alla quale mi dimostro estremamente socievole. E però conquista subito punti: dice di essere di Seattle. Nirvana! – esclamo in un’espressione di gioia. Annuisce. Poi parla di calcio, e lo chiama football (cosa che tradisce una sua permanenza abbastanza lunga in Europa): tifa A.C. Milan, come viene chiamato al di fuori dell’Italia. Tutto ciò è buono ai miei occhi, la tipa sta guadagnando in simpatia. Ti piace Beckham? Chiedo – come era stato suggerito dal demonio in me abituato alla mediocrità, seguendo il semplice sillogismo Beckham-America-Milan. Con grande sorpresa, mi risponde spiacente che il suo giocatore preferito è Massimo Ambrosini. Cosa? Massimo Arsenio Lupin? Lei non lo sa, e probabilmente non lo saprà mai, ma in quel momento avrei potuto sposarla. Chiunque preferisca Ambro sopra Ronaldinho o Beckham ha capito tutto di calcio e probabilmente abbastanza della vita.
Con un agile salto il discorso passa alla politica, dove posso compiacermi del mio spirito conservatore, crogiolarmi nel mio realismo e cinismo, gongolare nella mia superiorità dorata (Orazio mi perdoni). Perchè la nostra brava e intelligente ragazza è naturalmente Democratica ed elettrice di Obama; altrettanto naturalmente delusa dalla sua presidenza. Rido sotto i baffi, perchè vedo passare davanti ai miei occhi come in un film il mito che tutte le sinistre europee hanno costruito per loro, e che ciecamente continuano ad adorare. Mi guarda con occhi sbarrati quando le dico che sono un conservatore (ma prima mi chiede se conservatore vuol dire repubblicano) ma mi piace Obama. Li sbarra ancora di più quando continuo affermando che sarà un buon presidente, perché l’America è un grande paese e ha reso buoni presedenti persone più mediocri di Obama. Tento di spiegarle, senza grande successo, che si è scontrato con la realtà della difesa e della sicurezza nazionale, e non ha potuto fare a meno di riconoscere che la politica da tenere era quella dell’ex-presidente; salvo renderla cool come neanche il demonio saprebbe fare. Mi parla dei suoi studi, che non capisco bene ma devono riguardare qualche strano impasto umastico tipicamente americano. Dei suoi gusti letterari: il suo libro preferito è The Catcher in the Rye e insieme ci commuoviamo sulla fresca salma di Salinger. E Jane Austen. Come tutte le ragazze per bene. Ma ormai siamo già in prossimità di piazzale Roma; mi chiede qualcosa sul ponte di Calatrava e brevemente le spiego la storiella.
Nel lasciarci si premura lei di dirmi di contattarla su Facebook (ahimè). Ora, io che mi dò arie di saper gestire l’inglese, non chiedo che mi scriva il suo nome. Basta sentirlo. Quello che capisco è Bailey Philips, come i televisori più una storpiatura di quella cioccolata calda che spacciano come alcolica. Infatti faccio anche un apprezzamento per il suo nome, e risulta molto sorpresa. Il giorno dopo amaramente avrò capito perché: non si chiama Bailey ma Molly. Ai limiti dell’indecenza. Forse l’unica cosa che può redimere un nome del genere è una cover che i Nirvana hanno fatto di un gruppo scozzese dal titolo Molly’s Lips. Lo stesso però la mia bocca raffinata non riuscirebbe a pronunciare un nome del genere, e un degno sostituto nascerà successivamente dall’ispirazione che sempre mi coglie scrivendo messaggi: la bruttona di Walla Walla. Non mi si faccia torto, che io non passi per un bruto: ricordo che per una manciata di secondi l’avrei anche sposata.
Ci salutiamo con la promessa di risentirci digitalemente, io con l’amaro in bocca di essermi intrattenuto con la meno appetibile del gruppo. Ora ci immergiamo di nuovo nella città silenziosa, per andare al chiuso il più presto possibile, sederci ad un tavolo, e godere delle ultime ombre di rosso che il nostro corpo può sopportare.

Turiste straniere – Parte zero

E’ una pungente serata d’inverno. Abbastanza da indurti a chiuderti volentieri in qualche pub a discutere dei massimi sistemi di fronte al tumbler di whiskey. Eppure è Carnevale, e le calli affollate di Venezia daranno lo stesso calore. Brodskij non sarebbe mai stato d’accordo pur amando l’inverno; ma lui a Venezia ci doveva arrivare dalla Russia e quindi l’investimento era da valutare bene, io ho un quarto d’ora. E poi ne ho ancora di strada da fare per raggiungere il vecchio comunista.
In questa pungente serata quattro ragazzi si apprestano a tuffarsi nella folla (ma, rubando a San Paolo, nella folla ma non della folla), e per affermare l’estraneità il ricorso più semplice è sempre immergersi nell’”arcano mistero del sangue del Signore”, come scriveva qualcuno.
Quattro come siamo potremmo essere l’A-Team, se non ci mancasse il negro. Oppure i Ramones, fossimo tutti cappelloni. Ad ogni modo quattro è il numero che conserva la compatezza nella forza del gruppo. Quattro è il numero del mondo (tre della divinità più il demonio). A cinque già la dispersione comincia a prevalere.
Quella dei quattro scazonti a cui piace fendere a lunghi passi l’aria spessa, in attesa di buttarsi dal prossimo taverniere, potrebbe essere una sera delle solite. Quando i sensi si obnubilano la lingua si scoglie, e i discorsi sui massimi sistemi scivolano una volta in secondo piano. Prospettive sogni ricordi. E poi di nuovo. Rinse and repeat – dicono oltremanica. Al culmine del percorso affiorano foschi pensieri. Si torna a casa con dignità. Ci si addormenta di schianto, e ci si sveglia la mattina dopo nella delusione, perchè omne animal triste post coitum. Quindi la domenica, triste e carente d’equilibrio perchè ancora ubriaco, tocca sorbitri le preoccupazioni di tua nonna sulla gioventù malata d’oggi, e spergiurare che nè tu, nè i tuoi amici, nè gli amici dei tuoi amici appartengono alla categoria. Appena ti sei liberato della vegliarda, ti tuffi per il resto della giornata nel Qohelet, nel libro di Giobbe o in qualsiasi altra cosa offra l’Antico Testamento.

Avevo un vecchio professore di Filosofia. Non esattamente uno stravagante, direi piuttosto un accademico a cui piaceva ancora l’esercizio (nonchè far esercitare) la memoria. Un giorno un giovane alunno gli chiese conto del perchè del pessimismo di Schopenhauer. Rispose: "All’inizio si è giovani, incorrotti, e si pensa di cambiare al mondo. Poi si diventa vecchi e ci si rende conto che il mondo è brutto e non c’è nulla da fare". Disse queste parole come se fosse lui, in quel momento, il vecchio Arthur redivivo.