O Venusia Anceps (per una resa migliore, disponibile anche in pdf)

“Che ci fai tu qui? Non eri col gruppo degli altri?”. Sì, volevo raggiungerli adesso (bugia). “Ah bene.. perché.. stai attento comunque a stare solo”. Lei non sapeva chi ero io, la posso anche perdonare per questo affronto. Ma non posso perdonare questo colle maledetto, nato a due teste.
Sulla statale, una serie di cartelli si sentono in dovere di informare l’ignaro visitatore che Venosa ha il merito di essere la città natale di Orazio, come se qualcuno da queste parti potesse passarci per caso. Ma soprattutto i cartelli mi mettono il sospetto che dopo il 65 a.C. non ci sia nato nessuno degno di essere citato. Poi scopro che non è vero: il secondo poeta di Venosa è il pornocattolico Luigi Tansillo, che fra un poemetto erotico e un’ottava devota governava Gaeta (per chiarezza, nel sedicesimo secolo). Tutti particolari i poeti lucani. La cosa che stona è il fatto che l’intera cittadina sembra gravitare (e molto di più) intorno alla vita di un uomo che, godendo della sua aurea mediocritas, avrebbe disdegnato tanto ossequio.
Mi sorge spontaneo chiedermi se sia il comune con la percentuale più alta di liceali, visto il sentimento del luogo, oltre al fatto che l’unica scuola che sembra esistere è il Liceo Classico Statale Quinto Orazio Flacco. Male perché tutto questo vuol dire all’università in massa, ma decisamente in massa. E chi la fa la manodopera a Venosa? Per fortuna dopo scopro la presenza di un ITIS, che spero venga tutelato come minoranza.

Il centro storico è un prodotto di artigianato locale (e recente), tirato talmente a lucido che sembra di plastica. Il castello cinquecentesco (in restauro anche questo) con dei bastioni mica male, quando è illuminato diciamo che fa il suo effetto. Effetto che si esaurisce presto, quando si presenta allo sguardo la statua di Orazio (ma non era alto un metro e sessanta e non aveva le orecchie da Dumbo? Questo qui è più un germano incazzoso alto due metri e mezzo che altro) o la casa di Orazio (ma è vera? sembra costruita l’altroieri). Siccome le periferie sono uguali ovunque, neanche quella di Venosa fa eccezione con schiere di condomini anni 50, oltre a una chiesa-palasport appena finita il cui pezzo forte è un Cristo di Rio in miniatura piazzato sopra. Incredibile, ha battuto nella mia speciale classifica la Madonnina con scettro-neon di un paesino dell’entroterra veneto. Questo Cristo di notte viene sparato in cielo da un riflettore come fosse il bat-segnale.

Un gruppo di ragazzini, direi sobri, accende con qualche cartone un falò e comincia a danzarci in cerchio vagamente urlando qualche nota gutturale. Ogni tanto uno se ne scappa di corsa a chiamare un altro accolito per l’improvvisato rito. Andarono a chiamare un altro elefante.

Nel centro storico di Venosa i locali aperti di sera sono due, di cui uno non si nota neanche. Al primo, con le luci al neon viola, uno scapolo trent’enne della zona mi informa dell’esistenza del secondo, “se ti fidi”. Un altro affronto. E sono due. Ce l’ho mica a fare niente il coltellino tattico con la scrittina NYPD, che solo quella se si riuscisse a leggere dovrebbe far paura. Va avanti raccontando che lì dentro una volta uno è saltato fuori con una pistola, e c’è voluta un po’ di fatica per fermarlo. A questo punto la cosa mi incuriosisce: per trovarlo ci metto un po’.  Il contenitore è una casetta intonacata bianca di fresco, al piano terra nessuna finestra, una porta d’acciaio nera al centro e più a sinistra una nicchia con un affresco di Cristo in croce; per entrare bisogna suonare il campanello. Viste le premesse mi aspetto almeno il conte Dracula ad accogliermi. Quando entro, non so se mi trovo in un locale dark o ad un raduno di motociclisti.

A Venosa non c’è nulla da fare. E’ un bello svago a fissare il tabellone luminoso che a margine del parchetto somministra inoformazioni utili alla cittadinanza. Viene da  domandarsi da dove li hanno presi i soldi, e dato che realisticamente non dovrebbero venire dalla Comunità Europea, c’è da indignarsi. Ma finita l’indignazione ci si annoia. A Venosa nessuno fa nulla. Lo sanno bene i vecchi del posto stanno ore seduti sulle panchine come nelle fotografie d’epoca. Se cominci a camminare prima o poi il marciapiede finisce.
A Venosa tutti fanno la stessa cosa. Ad accogliere me e anche tutti gli altri all’ingresso dell’albergo c’è una schiera di ragazzine sorridenti. Resto un po’ imbambolato, poi rammento la collocazione geografica. Per accompagnarmi in camera si catapulta su di me l’unico ripugnante maschio. Guarda, in camera c’arrivo da solo e comunque non voglio presentarmi. “Prendiamo l’ascensore?”. Per due piani faccio sei volte prima con le scale. “Beh, comunque se avessi bisogno di qualcosa mi trovi giù”. Non ho bisogno di nulla e in ogni caso non verrò a chiedere a te.

Il Manuale del Perfetto Lucano, consultato per l’occasione, dice che il perfetto lucano non dev’essere nato, cresciuto, incancrenito qui. Ho buone possibilità. Mi manca però la fondamentale resistenza al peperoncino.

“A me piace la Venere facile”. Forse è questo l’apporto lucano alla modernità. “Quelle che dicono ‘più tardi, ora no’ lasciamole ai castrati” (libro primo, satira seconda). Fosse vissuto oggi, mi sa che avrebbe detto lasciamole ai finocchi. Dev’essere questo il filo conduttore, visto che anche Tansillo è sulla stessa linea. E se tutto ciò è rimasto uguale per milleseicento anni, non c’è ragione di credere che le cose non siano ancora così. Come se ci fosse bisogno ancora di qualcosa per convincermi che qui l’amore è un’altra cosa. “A Milano un bacio è un errore, un lusso, sempre più spesso un reato, comunque mai la norma”, scriveva qualcuno. Infatti a nessuno è mai venuto in mente di scrivere “Innamorarsi di una lucana”, esperienza troppo comune, invece se per caso ti innamori di una padana, dopo giustamente ci scrivi un libro.

Peccato non essere venuto qui d’inverno, la stagione più archetipica in queste lande. La Lucania è la regione dove le città sono in montagna nonostante si affacci su due mari(Potenza è 250 metri più in alto di Aosta e 550 più di Bolzano), dove a scapito della latitudine la neve bianca rincorre ciclicamente le distese irregolari, infinite e verdi. Mentre le immagini di questi colli sfilano veloci dietro il finestrino, non riesco a togliermi di testa l’immagine di una coperta bianca a perdita d’occhio, e a forza di sognare, a forza di pensare alla neve, anche Orazio lascia il posto a Kavafis. “La nostra giovinezza bianca, bianchissima”. Che poi è la neve che renda la Lucania eternamente nuova. “Che è infinita e infinitamente breve”. La neve che fa rabbrividire quelli che credono che Potenza sia la stessa cosa di Napoli o Bari. “Ali d’arcangelo schiude su di noi”. La neve che da venti secoli culla gli scrittori e i poeti lucani. “Incessantemente s’esaurisce, incessantemente ama”. La neve che si agita nella bolla di vetro, capovolta da una mano gigantesca, che ora si chiama Venosa. Qui ci torno.

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