Scritto da sé medesimo, 1871
I nostri ridicoli manuali della scuola dell’obbligo ci delineano la figura di Charles Darwin come quella di un ragazzo a modino, che serbava in cuore la sua idea di Evoluzione, costretto a lungo a un silenzio preventivo per paura di essere sbranato dai fissisti cattivi. Purtroppo, chiunque abbia letto anche solo pochi stralci dalle sue opere sa bene che non è così. Darwin era innanzitutto uno scienziato molto sui generis: il compianto Ernst Mayr (tra gli evoluzionisti più sfegatati) ci ricorda come nell’Origine delle Specie si intreccino cinque teorie diverse, tra le quali, nella foga divulgativa, non viene mai fatta una rigorosa distinzione. Oltretutto, l’attuale teoria sintetica dell’evoluzione, stabilita con un compromesso nel 1947 dal Convegno di Princeton dopo che a lungo la genetica aveva mosso vibranti proteste, è molto diversa da quella originaria di Darwin: nonostante tutte le lettere che il buon Mendel gli mandava, il nostro sapientone si permetteva sistematicamente di ignorarle.
Ce ne sarebbero di aneddoti carini da raccontare. Nella sua bellissima autobiografia, Darwin racconta di aver mandato una propria foto a un setta di psicologi seguaci della frenologia, i quali gli avrebbero consigliato di intraprendere la vita ecclesiastica: “La forma del mio cranio era stata argomento di pubblico dibattito, e uno degli oratori aveva dichiarato che avevo il bernoccolo sacerdotale tanto sviluppato da bastare per dieci preti”. Non dice poi come abbia accolto il responso, però sembra evidente che prestasse molta attenzione alla sua testa, come leggiamo in un altro passo: “E’ probabile che il mio cervello si sia sviluppato proprio nel corso delle ricerche compiute durante il viaggio: lo dimostra una osservazione di mio padre… La prima volta che mi vide dopo il viaggio, si volse alle mie sorelle ed esclamò: ‘Guardate, gli è cambiata la forma della testa”. Darwin pensava che l’essere stato a riflettere sulla teoria dell’evoluzione per cinque anni l’avesse portato ad un’evoluzione della sua intelligenza, col risultato di una deformazione cranica! Questo potrebbe sembrare sconvolgente a chi deduce l’idea del nostro uomo dai manuali, non a chi invece è abituato a leggere le opere e a trovarvi affermazioni scientificamente sconcertanti.
Darwin diede poi una bella base a quelle che poi sarebbero state le ideologie razziste del XX secolo: tutti i più accaniti divulgatori darwinisti, da Ernst Haeckel a Cesare Lombroso, si adoprarono a dimostrare le varie superiorità razziali basandosi sui principi della frenologia e sulle ben note applicazioni sociali della selezione naturale, provando “scientificamente” la superiorità degli europei sulle altre popolazioni mondiali e giustificando le varie forme di colonialismo, prima, e nazionalismo, poi; per arrivare ai nazisti, che misuravano teste e arti degli indigeni durante le spedizioni in Tibet, alla ricerca dell’origine della razza ariana.
Un refrain che però viene proposto spesso a chi sottolinea il carattere apertamente razzista dell’opera di Darwin, è che queste siano soltanto strumentalizzazioni posteriori di personaggi che hanno confuso la sua eredità, mentre gli interessi originari dello scienziato erano di carattere esclusivamente biologico. Ma leggendo l’Origine dell’Uomo, scritta nel 1871, ci si può ben rendere conto che così non è. Qui troviamo un Darwin convinto dell’esistenza di una gerarchia tra le razze umane e favorevole all’eliminazione del più debole. Troviamo un Darwin che nega il diritto naturale e invoca un relativismo per cui la morale si sarebbe evoluta anch’essa attraverso la selezione naturale. Allora, la coscienza umana, evolvendosi per accidente, avrebbe potuto diventare di qualsiasi natura:
“Se per esempio, per prendere un caso estremo, gli uomini fossero allevati nelle stesse precise condizioni delle api, non v’è quasi alcun dubbio che le nostre femmine non maritate crederebbero, come le api operaie, loro sacro dovere uccidere i fratelli, e le madri tenterebbero di uccidere le figlie feconde; e nessuno penserebbe a opporsi”. Avete capito? Per Darwin l’omicidio non andrebbe valutato in quanto tale, ma in relazione all’utilità nella sopravvivenza del gruppo!
Palesemente contraddicendosi, afferma che le nazioni europee, dal punto di vista morale “superano smisuratamente i loro progenitori selvaggi e sono al vertice della civiltà”, quando sappiamo benissimo che l’evoluzione, proprio perché casuale, non ha direzione! Ma ancora più incredibilmente, continua dicendo che questo progresso morale richiede necessariamente la distruzione delle razze meno adatte da parte di quelle più avanzate. Inutile dire che queste pagine ebbero grande successo, a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, tra tutti quegli intellettuali convinti della necessità di una particolare “igiene del mondo”.
Ma, evidentemente non contento di quello che già aveva scritto, troviamo la più sconcertante di tutte le affermazioni a pagina 207: “In un tempo avvenire, non molto lontano se misurato in secoli, le razze umane civili stermineranno e si sostituiranno in tutto il mondo alle razze selvagge. Nello stesso tempo le scimmie antropomorfe saranno senza dubbio sterminate. La lacuna tra l’uomo e i suoi più prossimi affini sarà allora più larga, perché invece di essere interposta tra il negro dell’Australia e il gorilla, sarà tra l’uomo in uno stato, speriamo, ancora più civile degli europei, e le scimmie inferiori come il babbuino”. Il senso è che gli scimpanzé, le scimmie antropomorfe, gli aborigeni australiani e i neri africani avranno vita breve a favore della razza europea.
Purtroppo, nella celebrazione della razza superiore, Darwin rileva un problema non da poco nella società occidentale rispetto a quelle primitive, ovvero lo stato che tutela i deboli a dispetto della razza: “Fra i selvaggi i deboli di corpo e di mente vengono presto eliminati; e quelli che sopravvivono godono in genere di un ottimo stato di salute. D’altra parte, noi uomini civili cerchiamo con ogni mezzo di ostacolare il processo di eliminazione; costruiamo ricoveri per gli incapaci, per gli storpi e per i malati; facciamo leggi per i poveri; e i nostri medici usano la loro massima abilità per salvare la vita di chiunque fino all’ultimo momento. […] Così i membri deboli della società civile si riproducono. […] Dobbiamo perciò sopportare gli effetti indubbiamente deleteri della sopravvivenza dei deboli e della propagazione della loro stirpe”.
E il libro si conclude con l’apertura più grande alla politica eugenetica­: “I due sessi – conclude Darwin – dovrebbero star lontani dal matrimonio, quando sono deboli di mente e di corpo; ma queste speranze sono utopie, e non si realizzeranno mai, neppure in parte, finché le leggi dell’ereditarietà non saranno completamente conosciute. Chiunque coopererà a questo intento, renderà un buon servigio all’umanità”. Capito? Renderà un buon servigio all’umanità.
Ragazzi miei, contrariamente a quanto dice la vulgata, questo è Charles Darwin, 1871. Ma possiamo consolarci pensando che il capolavoro di Stevenson, Dr. Jekyll e Mr. Hyde, non sarebbe venuto alla luce senza l’idea di darwinismo sociale, senza quegli scimmioni o babbuini reperti da Jurassic Park nella striscia tra l’uomo e la scimmia.

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